Un cammino attraverso le bellezze naturalistiche di un territorio incontaminato ma anche un percorso spirituale alla ricerca dei propri limiti.
Il Jordan Trail è un percorso a piedi o in bici che porta dal confine nord della Giordania fino al Mar Rosso, ad Akaba. In tutto sono 600 km. L’ha realizzato un’associazione di appassionati di trekking e outdoor che ha studiato, definito ed infine inserito tutte le indicazioni sul tracciato a partire dal 2015.
Ho seguito il Jordan Trail nel tratto tra Petra e Wadi Rum: in tutto 6 tappe giornaliere per un totale di un centinaio di km che non spaventano un vero sportivo… ma io non lo sono!
A me piace camminare perché fa bene, migliora la circolazione e ossigena il cervello ma non sono allenato sulle lunghe distanze! E così quando Marco Biazzetti, che è un amico scrittore e si occupa di turismo in Giordania mi ha parlato per la prima volta del Jordan Trail io ho detto subito: “ah che bello, mi piacerebbe andare da Petra a Wadi Rum e sentirmi un po’ Lawrence d’Arabia”.
Lui mi ha preso in parola e mi ha iscritto! E così non potevo tirarmi indietro: mi sono comprato l’attrezzatura da trekking e ho cominciato a testarla, per esempio la camel bag, una sacca da riempire d’acqua con un tubicino per succhiarla mentre si cammina. Il primo giorno del trail ho consumato i 3 litri della Camel bag e ci ho aggiunto 2 bottiglie da un litro e mezzo. Ho camminato per 22 km e il tempo stimato era 7/9 ore. Ne ho impiegate 11! Sono arrivato al campo base senza bisogno di essere messo su Zorro, il mulo tutto nero che ci seguiva come supporto. E poi giorno dopo giorno ho camminato sempre meglio anche grazie alla guida che mi avevano assegnato: Lama, una ragazza di Amman che è stata la prima guida a completare tutto il Jordan Trail al completo, 600 km in 45 giorni.
Se ce l’ho fatta io, ce la può fare chiunque a fare una settimana di cammino. Basta avere un po’ di allenamento a marciare, non solo a fare passeggiate di salute, e poi serve un equipaggiamento adeguato e un minimo di esperienza di campeggio perché si dorme in tenda. Il campo che viene allestito ogni sera al punto di arrivo, un confort spartano perché la doccia è un angolino tra le rocce dove ti versi addosso l’acqua da un bidone che è stato al sole ed è caldissima! La toilette… lo stesso, tra le rocce. E il cibo è preparato da Abu Nimer, che trasporta tutto sul suo pick up Toyota Hilux, il preferito dai beduini.
Abu significa Padre, un po’ come noi diciamo Zio, e Nimer significa Tigre. Ma zio Tigre è un uomo mite, che abita tra le montagne, conosce le wadi come le sue tasche e cucina benissimo! La prima sera pollo accompagnato da riso alla curcuma e una zuppa di verdure. E poi una sera un piatto tradizionale, il Mansaf, con pollo o vitello in un brodo saporito. L’ultima sera grigliata al fuoco di legna di ginepro, una meraviglia!
Il viaggio camminando per le wadi, le vallate create dall’erosione del vento e delle piogge che per la maggior parte dell’anno sono letti di torrenti in secca, non è solo un viaggio di spostamento. E’ un percorso spirituale, alla ricerca di sé stessi e dei propri limiti che sono molto più ampi di quanto ci si aspetta. Con il cervello ossigenato dal movimento i pensieri fluiscono chiari, le consapevolezze si fanno strada.
In Giordania piove solo d’inverno durante 2 mesi e le wadi si riempiono di acqua che arriva dalle montagne intorno. Acqua e vento hanno scavato canyon profondi mettendo a nudo le venature delle rocce. E così nella stagione autunnale si cammina sulla sabbia tra pareti di granito rosso, basalto nero o di arenaria, cioè sabbia compattata da pressioni titaniche in ere geologiche che ha imprigionato al suo interno molti minerali; si vedono le sfumature del manganese nero, del rame violetto, dello zolfo giallo, dei minerali ferrosi rossi. Una meraviglia sfumature di colori diversi sulle pareti alte da 2 a 30 metri del Canyon Colorato che ho percorso il terzo giorno di cammino.
Camminare per 6 giorni mi ha permesso di vedere cose della Giordania che sono fuori dai soliti circuiti e altre che avevo già visto come Petra e la piccola Petra. C’è un volo diretto da Orio al Serio per Amman e poi dalla capitale in due ore e mezza si arriva a destinazione.
L’ultima notte nel deserto l’ho trascorsa sotto una grande tenda beduino, ospite di Abu Sabbah. Avevamo camminato tutto il giorno in un unico wadi, il grandissimo wadi Aheimrab, 20 km di leggera salita, con qualche passaggio all’ombra. E per finire 2 km di salita durissima sotto il sole delle 4 del pomeriggio. In cima c’era ad aspettarci Abu Sabbah e il nipote, anche lui guida, e organizzatore del Jordan Trail che sapeva benissimo cosa ci voleva: una bottiglia di acqua fresca! La cosa migliore del mondo dopo una giornata a camminare a 30°, succhiando acqua calda che sa di plastica dalla camel bag e cercando ombra e un po’ di venticello per fare una sosta e abbassare la temperatura corporea.
Abbiamo cenato sotto la tenda della famiglia ma senza le donne, che in presenza di estranei devono stare a parte. Verdure con carne di capra cotte nella brace e il pane arabo più buono che abbia mangiato, che sapeva di legna! Abu Sabbah ha 11 figli e una sola moglie. È il capo di un villaggio di 300 persone, ha sicuramente più di 70 anni ma non li dimostra perché i beduini si conservano bene, sono smilzi, sono abituati a dormire e mangiare per terra e quindi sono agili a tutte le età, mangiano cose naturali e si muovono, camminano tanto. Ha una casa in muratura ma preferisce vivere sotto la sua tenda tessuta in lana pesante di capre nere. Ha una tenda per gli ospiti, come una dependence, ed è li che ho dormito con il sacco a pelo. Abu è una celebrità locale: in un sito archeologico a qualche km da li c’è un museo che racconta la città esistente li, sulle rotte carovaniere. Un sito Nabateo prima, bizantino poi, con una grande chiesa e poi arabo. E nel museo c’è una foto di Abu Sabbah. E quando glielo ho detto ha mandato il figlio più piccolo a prendere l’originale tra le foto di famiglia. I beduini nomadi non hanno mobili o suppellettili. Per farmi avere una sedia visto che non riuscivo a mangiare per terra se la sono fatta prestare! E le cose importanti come le foto le conservano nelle cassette metalliche da munizioni dell’esercito giordano! Anche le medicine e i rimedi fitoterapici in scatole di nastri da mitragliatrice. Il mattino dopo Abu Sabbah era sotto la tenda, con l’ennesima sigaretta di tabacco nero coltivato in Giordania. Nel suo bicchiere di thè c’era un dito di latte di cammella appena munto. Ci siamo salutati con rispetto. E ho raggiunto il punto finale della mia parte di Jordan Trail: l’arco di roccia che sta nei pressi della Lawrence Cave, la tomba nabatea scavata nell’arenaria che servì di base alla spia britannica, alla quale sono arrivato conducendo un cammello. Per 10 euro ho avuto in prestito Ferrari, un esemplare di 5 anni che si distingue per la sua pigrizia nel camminare. E quindi ecco il perché del nomignolo. Ismael affitta cammelli per brevi tratti o per fare percorsi più impegnativi nel deserto intorno a Wadi Rum. Io ho affrontato la Giordania delle wadi; da lì fino ad Aquaba, sul mar Rosso, il percorso è più pianeggiante ma si cammina in un deserto di sabbia senza ombra. Un percorso che ricorda il pianeta Marte, non per nulla hanno girato le scene del film the Martian con Matt Damon nei panni di un astronauta sopravvissuto a una catastrofe sul pianeta rosso. Un ultimo sforzo per realizzare la foto che suggella l’impresa: sono arrivato all’Arco di Roccia. E se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi.