L’esposizione di Alberto Giacometti (1901-1966) a Monaco sarà un grande evento. Pittore, scultore e incisore svizzero, appartenente ad una famiglia dove sia il padre che i fratelli sono nel mondo dell’arte (il padre è pittore, Diego, suo collaboratore è creatore di mobili e oggetti, Bruno è architetto e realizza il Padiglione della Svizzera ai Giardini della Biennale di Venezia). Paradigmatica resta la fotografia di lui scattata da Henry Cartier Bresson in Rue d’Alésia a Parigi nel 1961. Personalità, carattere e fisico tormentati e spigolosi che l’artista riflette nelle sue sculture, concrezioni plastiche slanciate verso l’alto, aguzze, scarne, Giacometti nasce nel cantone dei Grigioni e della sua Val Bregaglia, paesaggio di pietra, roccia e cime alpine, affilate dai venti e dal gelo, porta traccia indelebile la sua indole. Dal 1922 inizia la sua attività artistica a Parigi. Prima di giungere al suo personalissimo stile, cerca risposte nell’estremizzare la sintesi del Cubismo e nell’esplorazione del subconscio surrealista. “Non mi interessava più la forma esteriore degli esseri, ma ciò che sentivo effettivamente dentro la mia vita… Non si trattava più di rappresentare una figura somigliante esteriormente, ma di viverla e realizzare soltanto ciò che mi aveva toccato o che desideravo. Ma tutto questo si alternava, si contraddiceva, procedeva per contrasti“. Le sue sculture progressivamente, dice, “diventavano sempre più piccole; risultavano somiglianti solo se piccole… una figura grande mi appariva falsa, una piccola intollerabile e poi si riducevano così piccole che un ultimo tocco di dita le faceva scomparire…Questo mi spinse a tentare figure più grandi; ma allora, con mia grande sorpresa, esse diventavano somiglianti solo se lunghe e sottili“.
Giunge a scorticare la materia per metterne a nudo l’essenza più vitale e segreta. Modella immagini la cui verticalità e durezza minerale è quella dei profili rocciosi che forzano l’aria con sottigliezza, fragilità e resistenza, oggi si parlerebbe di “resilienza”. Dalle sue mani nascono fisionomie petrose, filiformi, minimaliste, imponenti e drammatiche. Imperscrutabili figure di un’umanità primordiale o del futuro dove sembianza umana, morfologia montana e tormento esistenziale, uguale oggi come all’alba dei tempi, si fondono e confondono. Perentorie, universali e immense, anche quando sono piccole come una spilla da cravatta.
Per la realizzazione dei ritratti, graffiati a penna, a matita o a olio, oppure grezzi addensati di grigio granito, il processo è un’avventura travagliata di costruzione e distruzione continua, erosione, sgretolamento, sparizioni, ri-concrezioni e ritorni. I suoi scritti rispecchiano la perenne insoddisfazione e l’inquietudine distruttiva. Ricomincia ogni volta e non sente mai di aver raggiunto quello che cerca nel continuo suo “toccare…toccare… togliere“. Avanza, alla ricerca di un irraggiungibile assoluto “voltando le spalle alla meta, non faccio se non disfacendo”. Cerca a tentoni “d’afferrare nel vuoto il filo bianco, invisibile del meraviglioso” e insieme, l’enigma di un tocco che rende presenza e svela il significato di un’assenza.